Da leggere: L’Arminuta – Donatella di Pietrantonio

L'Arminuta

Gli occhi della ragazza ritratta sulla copertina sono la prima cosa che mi viene in mente se chiudo i miei e penso a “L’Arminuta”.

Il bianco e il nero li rendono ancora più penetranti, più forti. Credo che siano stati loro a chiamarmi, a far sì che alla fine io capitolassi e mi gettassi tra le pagine di questo libro dopo aver tentennato mesi, quasi per capire se davvero lui volesse esser letto. È qualcosa che ho sempre amato fare, a volte anche dopo aver acquistato un nuovo romanzo: voglio aspettare, verificare che sia realmente lui a volermi. A costo di attendere settimane intere, mesi, a volte anni.

Ma il bello dei libri è che non conoscono tempo, se non quello racchiuso tra le loro pagine. Sanno aspettare il loro momento.

L’Arminuta – questo è e resterà il suo unico nome durante tutto il romanzo – è colei che ritorna nel paesino tra le montagne dell’Abruzzo da cui era stata portata via tredici anni prima. Colei che si ritrova catapultata nella sua vera famiglia d’origine, costretta a fare i conti con una vita di certezze che le si sgretolano sotto i piedi e una da ricostruire da zero.

Il tempo scorre in modo strano, tra queste pagine. Sembra tutto immerso in una bolla enormemente dilatata – almeno questa è stata la mia impressione – in cui la storia si dipana sì, ma come se accadesse tutto quanto insieme, con dei rari sprazzi in cui appare un presente consapevole, ma non sereno, perché certe ferite non sono in grado di rimarginarsi del tutto. L’abbandono fatto di sfumature diverse, due madri che insieme non ne costituiscono una, anzi ne spaccano il concetto:

l’unico risultato è perdersi, perdere il proprio sé.

Ripetevo piano la parola mamma cento volte, finché perdeva ogni senso ed era solo una ginnastica delle labbra. Restavo orfana di due madri viventi. Una mi aveva ceduta con il suo latte ancora sulla lingua, l’altra mi aveva restituita a tredici anni. Ero figlia di separazioni, parentele false o taciute, distanze. Non sapevo più da chi provenivo. In fondo non lo so neanche adesso.

Per due famiglie incapaci di presenza, per dei fratelli che la ritengono un’intrusa e uno che la vede già come una donna, esiste solo una controparte: la sorella minore, ma straordinariamente capace di diventare maggiore all’occorrenza, di accompagnare l’Arminuta nelle dinamiche a lei sconosciute di quell’esistenza ruvida e così diversa da quella a cui è abituata.

Adriana diventa l’unico appiglio in uno sradicamento totale, una pianta del piede fresca a cui appoggiare il viso di notte, una schiena da abbracciare nel sonno sgranando le vertebre come in un rosario, in una specie di muto patto di sorellanza. Nella sua schiettezza mista a quella paura che in fondo resta sempre annidata nel cuore di chi si fa forte, nello scambio reciproco non sempre facile, entrambe imparano a restare in piedi nonostante tutto.

Mia sorella. Come un fiore improbabile, cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia. Da lei ho appreso la resistenza. Ora ci somigliamo meno nei tratti, ma è lo stesso il senso che troviamo in questo essere gettate nel mondo. Nella complicità ci siamo salvate.

Gli occhi della ragazza ritratta sulla copertina sono gli occhi dell’Arminuta e di Adriana, insieme.

L'Arminuta

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