È una mattina di quelle grigie, quasi più da novembre che da primi di ottobre. L’aria punge la pelle, mentre aspetto il treno, e io mi stringo addosso il piumino e la sciarpa. Non ho dormito quasi niente – pensieri, occhi spalancati, voglia forte dell’indomani e ansia di perdere la sveglia. Mi sento nervosa, ho solo bisogno di lasciar fluire tutto, addosso e intorno.
Non so nemmeno dove stare, ai bus, al foglio firma, per strada. Ogni posizione mi sembra sbagliata e sempre, dannatamente, controluce.
E poi mi accorgo che sbagliata non lo è mai del tutto, per gli occhi che incrociano i miei dietro l’obiettivo e persino per una buffa riverenza che mi rivolge Kilian Frankiny, come se fosse un cavaliere d’altri tempi – in fondo, pur sempre in uniforme, anche se di lycra.

La luce rimane strana tutto il giorno, lattiginosa persino quando il sole fa capolino dietro alle nuvole. Illumina forte la maglia iridata di Pedersen, si riflette sulle curve dei caschi e sulle lenti a specchio dietro cui si nascondono gli sguardi stanchi di fine stagione, taglia le ombre e le rende ancora più scure del solito.
Sembra corrispondere al mio umore che va un po’ come vuole lui. Sono a casa, sul serio, e questa corsa sa leggermi dentro come nessun’altra, mi ci posso specchiare.

Andiamo quasi di pari passo, continuiamo a rincorrerci sul circuito come in un flusso di coscienza di Joyce. Senza punti virgole e nient’altro. Solo Varese, le ville, i giardini, la gente a bordo strada e la corsa.
Ci muoviamo l’una contro l’altra non per scontrarci ma per fonderci una volta di più. È ovvio, perdo il conto dei giri e della realtà e vorrei non recuperarlo più perché, come sempre, tutto questo mi sta guarendo i nervi e i pensieri meglio di qualsiasi altra medicina.