L’alba è grigia, un po’ fresca, ma questa volta non ci casco: so che farà caldo e sotto la felpa ci sono le mezze maniche.
Non faccio in tempo a scendere dall’auto che già sento una signora sbraitare cose a caso contro i ciclisti che oggi si sentono liberi di essere indisciplinati, perché c’è la corsa. Un’altra ci si avvicina, in tenuta da jogging, e ci chiede cosa sta accadendo in città. Mi domando se sia io a vivere in una bolla a parte, oppure gli altri.
Quello che so per certo, invece, è che il ciclismo è quella cosa che in un giorno qualunque dell’anno ferma una città o un paese, sovverte ogni regola, costringe ad uscire dai propri schemi egoistici e persino a porsi qualche domanda. È come una filosofia.
Legnano è una di quelle città strane dell’hinterland milanese che, nonostante la tanta storia alle spalle, non riescono a dirmi molto. La attraverso senza riuscire a comprenderla, anche se ci sono stata più volte. Mi sento così insofferente che vorrei che la corsa partisse subito, mi rifugio nei volti più o meno familiari che sono un’ancora perfetta in questo genere di casi.
Incrocio Viviani con la maglia di campione europeo, gli lancio un in bocca al lupo mentre un volontario di fianco a me dice “è bravo quel ragazzo”. Gli rispondo che sì, se le merita le stelle che ha sulla maglia.
Ché a volte, avere qualcosa che ci fa sentire speciali e ancora più forti, dopo aver attraversato mille difficoltà, è proprio qualcosa che ci meritiamo – e vorremmo tenercelo stretto il più a lungo possibile.

Il GPM è una strada in mezzo al nulla, vicino ad una fattoria dove allevano cavalli da corsa – così almeno recita un cartello. Ai bordi della carreggiata c’è l’erba alta mista ai fiori colorati di settembre e ai rovi delle more che mi pungono le caviglie.
Solito copione di queste corse, fuga e gruppo e i minuti tra i due che si accorciano ad ogni giro. Qui sembra di essere in un luogo dimenticato da tutti e invece c’è un sacco di gente, compresa una coppia di signori anziani seduta ad un tavolino con tanto di cibo e bevande, in religiosa attesa del passaggio. Sono questi i posti che mi restituiscono fiato, proprio quelli dove la corsa la puoi respirare a pieni polmoni.
Perché annusarla, ascoltarla, sentirla sulla pelle quando il gruppo sfreccia a pochi centimetri dal corpo, è una cosa che ci attraversa totalmente e ci fa quasi sentire ebbri.

Tornare a Legnano mi getta di nuovo in tutta un’altra dimensione: un rettilineo lunghissimo con un solo bar nell’arco di un chilometro, di un’epoca a metà tra gli anni ’60 e ’90. La barista dai tratti somatici asiatici sorride a tutti, persino mentre sparecchia un tavolo. Un gelato, una bottiglietta d’acqua fresca e, quando esco di lì, mi sembra di esser riemersa da chissà dove.
Il circuito finale è una cosa talmente rapida da lasciarmi quasi interdetta, come quei fermo immagine dove si rimane a metà di una posa assurda mentre il resto sfreccia intorno a cento all’ora. Suona la campana dell’ultimo giro, corro, lo speaker annuncia una caduta, ma noi non la vediamo. C’è la volata e Bauhaus che alza le braccia in un modo così dritto da ricordarmi la corrente artistica omonima.
Le bibite gassate si mischiano al sudore e al sangue che cola dai graffi freschi. Dietro, da qualche parte, c’è il sole che si abbassa sull’orizzonte, acceca lo sguardo e mi fa sentire il bruciore di tutto questo.