La strada tortuosa che da Siena conduce all’Orcia
traverso il mare rosso
di crete dilavate
che mettono di marzo una peluria verde
è una strada fuori del tempo, una strada aperta
e punta con le sue giravolte al cuore dell’enigma.Reale o irreale, solare o notturna –
Mario Luzi
assorti ne seguivano
il lungo saliscendi
di padre in figlio i miei vecchi con un presagio di tormento.
Reale o irreale, solare o notturna –
interroga negli anni
la mente – e l’idea di vita le si screzia
d’un volto doppio imprendibile –
interroga il pianeta duro della landa,
i poggi bruciati, le sparse rocche.
E il vento, non so se dal tempo o dallo spazio, che frusta il sangue.
Pensieri tirati sulla corda
d’un’interrogazione senza fine
non lasciano vivere, non hanno risposta.
Lo intende bene lei passata da quelle dune.
Torna da me, la poesia: questa corsa la chiama sempre a gran voce, ormai l’ho imparato. Così come ho imparato che la scrittura a fiume che viene a solleticarmi le dita subito dopo qualcosa di bello nasce dai brividi sulla pelle, dagli occhi lucidi e dal cuore in gola.
Come se, questa volta, fossi stata io a correre per centottantaquattrochilometri.
Non importa se io, da Siena, disto poco meno del triplo di quei chilometri, se quella città l’ho respirata ormai troppo tempo fa, ma ancora mi ricordo di quanto ricca e bella sia. Oggi ero lì, sull’acciottolato scivoloso di pioggia del centro storico e sul fango grigio delle crete fradice, riemerse dalla neve di pochi giorni fa.

È una strada fuori del tempo, una strada aperta e punta con le sue giravolte al cuore dell’enigma.
Qual è, l’enigma, stavolta? Forse un nome inaspettato contro tutti gli altri, qualcosa che spariglia le carte in tavola in un modo che il ciclismo conosce bene: all’improvviso. Basta un’incertezza di troppo e quel nome inaspettato non lo riprendi più, spiega le ali e vola via veloce.
È il vento, non so se dal tempo o dallo spazio, che frusta il sangue.
Il freddo, l’aria sferzante, la pioggia: una mano invisibile che incita i ciclisti, come fa un fantino col suo cavallo durante il Palio. Li ricopre di fango, creando sagome di guerrieri di epoche remote, con i volti che sembrano maschere, espressioni pietrificate della fatica.
Quando riappare Siena, nessuno riesce ad alzare lo sguardo verso il Duomo e la Torre del Mangia. Non ci si può rilassare e dirsi che è finita, gli ultimi strappi e le curve strette sono un colpo di grazia prima di attraversare la famigerata curva di San Martino e crollare sfiniti al suolo.
Come accade a Wout Van Aert, campione del mondo di ciclocross prestato ora alla strada, che taglia il traguardo per terzo e quasi sviene dalla fatica, perché le sue gambe non lo reggono più. Lui, che la corsa l’ha aperta, insieme a Romain Bardet, a quaranta chilometri dall’arrivo, su quegli sterrati che somigliano vagamente alla terra del suo Belgio. Ci ha provato, Wout, a sparigliare quelle carte. Alla fine è un suo compatriota, persino coetaneo, a farlo: Tiesj Benoot. Sembra non crederci, invece è stato proprio lui a involarsi sul fango e a prendersi l’abbraccio della conchiglia di Piazza del Campo. I suoi occhi chiari brillano di gioia sul viso ripulito, prima di salire sul podio.