Quando mi guardo attorno, sulla strada di Orino, a prima vista mi sembra ancora autunno, uno di quei giorni uggiosi di novembre. Piove, a volte forte, a volte smette, l’aria è gelida e sferza forte il viso e le mani: sembra tutto meno che marzo. Invece basta stare in silenzio un attimo, tendere le orecchie e, nel silenzio carico di attesa, si sentono i cinguettii festosi degli uccellini che chiamano a gran voce la primavera. Ci fanno da colonna sonora mentre aspettiamo la corsa, nascosti tra gli alberi ancora senza foglie. Al passaggio delle biciclette, il fruscio delle ruote sembra il contrappunto perfetto di quel canto.

Questa volta è più speciale del solito. E non solo perché sono vicino a casa, ma perché sono le ragazze a correre. È uno sport anche per noi, il ciclismo, nonostante a volte sembri quasi un tabù. E no, non serve essere maschiacci. Si può, si sa e si deve essere donne anche qui. Con le code, gli chignon o le trecce ben strette, gli orecchini scintillanti e lo smalto sulle unghie. Con lo sguardo deciso di Marianne Vos, con i sorrisi che si spalancano incuranti della pioggia battente, con lo scaldarsi a vicenda come fanno le ragazze della Canyon/SRAM o con l’abbracciarsi in un saluto veloce ma sincero – perché prima si è amiche, dopo, al massimo, avversarie.
Lo so che mi perdo nei dettagli, ma è più forte di me.
Da una corsa vorrei sempre portare a casa quanto più posso.
Persino studiare le forme freni a disco, tirati a lucido, che mi fanno venire voglia di passarci sopra un dito per vedere se sono davvero così taglienti come dicono. Mi fermo a guardare tutte le scritte sulle biciclette: nomi, firme, vividi promemoria per ricordarsi di colorare la strada o di esser toste. Oppure i nastri adesivi con le indicazioni dei punti focali da avere sott’occhio mentre si pedala. Oppure ancora, il modo quasi materno di tenere vicino a sé le proprie bici come cose care da accompagnare e proteggere.
Poi c’è la corsa, che è dura come se fosse una classica del Nord. Manca solo un po’ di pavè e potremmo tranquillamente essere in Belgio invece che in un angolo di Lombardia quasi al confine con la Svizzera. Ci sono 3° C e non li sento. Se non fosse per la macchina fotografica a rischio doccia, probabilmente ignorerei del tutto anche il diluvio. Sarà l’adrenalina, sarà che ci sono 136 donne come me lì fuori a lottare e a prendersi pioggia, vento e freddo addosso: se loro sono forti abbastanza da volerci provare, so di poterlo essere anch’io.

A bordo strada incontro una signora sulla sessantina. Mi chiede se corro in bici, le rispondo di no, purtroppo, ci sono arrivata troppo tardi per poter accarezzare quell’idea. Lei, invece, sì, ha iniziato quando aveva ventun’anni. Be tough, c’era scritto sulle Ridley delle Lotto Soudal: di sicuro lei lo è stata, si vede. Ci ritroviamo a Cittiglio, andiamo insieme verso il traguardo. Incrociamo una delle ragazze che ha deciso di ritirarsi, distrutta dallo sforzo. Ciao, cara le dice, come una nonna alla nipote, e la ragazza sorride, cambia completamente espressione, le ridono persino gli occhi.