Fine settembre è freddo pungente al mattino e di sera, caldo da scoppiare durante il giorno. Anche quassù, in questa città circondata dalle Alpi che rapiscono lo sguardo da ogni lato. Innsbruck è piena di gente di tutte le nazionalità, eppure non si percepisce quasi il caos. Scorre placida come il suo fiume, che ha il colore dell’acqua di montagna e sicuramente è gelido, anche se qualche pazzo ci fa surf – o una specie – sopra.
La luce dell’autunno appena cominciato disegna immagini degne di un quadro di Caravaggio, in certi punti. Dura e dolce nello stesso tempo, rimbalza sulle tegole del Tetto d’Oro e sulle facciate delle case del centro, un arcobaleno di colori pastello che sembra esser stato creato apposta per una settimana in cui l’iride è ciò che riempie le speranze e i pensieri di tutti.

Non so quante strade portino verso le montagne, ma sappiamo che quella che ci chiama è una sola e inizia lì, dopo il grande ponte, tra due di quelle abitazioni color pastello. È una viuzza stretta che si inerpica subito, di botto, tra altre case che via via diventano più simili a baite, coi balconi perfettamente fioriti e legno dappertutto, e infine più alberi che altro, il bosco ai lati della strada.

Trecento metri di dislivello in qualcosa come tre chilometri, roba che anche a farne poco più di metà li senti tutti quanti nelle gambe persino se vai su a piedi – figurarsi in bici. Strada che pende e non spiana praticamente mai, da colpo di grazia. Non per niente la chiamano Höll, inferno, e l’hanno pure scritto sull’asfalto, con una “semicit” degli AC/DC che non potrebbe rivelarsi più adatta.
Welcome at the highway to Höll.
E che inferno, domenica. Ad un certo punto la strada è chiusa dalla polizia. Sicurezza, dicono, come se non fosse stretto anche dove siamo noi. Chissà come mai, però, alla fine aprono. Chi ci capisce qualcosa è bravo. Ci fermano ancora dopo 100 metri, in un punto in cui qualcuno ha scritto Michele è con noi in azzurro sull’asfalto. Nessuno calpesta quella scritta, ci giriamo tutti attorno. Lo sentiamo, è davvero con noi.
Riaprono ancora, c’è una cappellina con una Madonna bianca su una curva che è diventata la curva Pantani – chissà quando sono riusciti a salire, forse saremmo dovute partire all’alba. Le bandiere del Pirata sventolano sopra le nostre teste nella via crucis delle tre del pomeriggio. È una cosa talmente forte che mi viene da piangere, per fortuna ho addosso gli occhiali da sole, anche se non credo che qualcuno, lì, oserebbe ridere.
Lo stop definitivo è nello stesso punto in cui ci eravamo fermate due giorni prima ad aspettare i ragazzi in ricognizione, a quel 28% cerchiato di rosso, una percentuale fasulla che ti fa credere che sia quello il punto più duro e invece devi masticare imprecazioni e conservare il fiato perché più avanti è peggio.
C’è silenzio lassù. Il ronzio dell’elicottero ci dice dov’è la corsa, come in un’altra dimensione, come se non fossimo lì per la stessa cosa, ma soltanto a prendere l’ultimo sole in faccia o a respirare boccate di umidità. Persino la gente parla con tono sommesso, come in una chiesa – in fondo la salita ha un che di sacro, specie quando è così devastante.
Non si deve disturbare la montagna, non è ancora ora. Le aquile ci osservano da ancora più in alto, come punti neri sul cielo azzurro senza nuvole, torri di guardia sospese nel vuoto.
Abbiamo le orecchie tese come gli indiani, per sentire da lontano le moto in arrivo e le urla che – come un segnale di battaglia – cominciano a salire dalle curve più in basso fino a noi come una ola gigante, insieme alla testa della corsa. Sono in quattro, tra di loro c’è Gianni e porca miseria, ci credo da morire, lo vorrei spingere con le poche forze che mi rimangono.
Mi sembra un’allucinazione tutto il resto, gli altri che passano da soli o a piccoli gruppi, ma ognuno chiuso nel suo personale duello con la montagna e con se stesso. Testa bassa, bava alla bocca aperta in un ghigno diabolico, gambe che ardono. È davvero l’inferno.
Sono allucinata e nello stesso tempo sento vibrare ogni parte di me. Forse è questo sentirsi vivi.

Dall’urlo di un fotografo spagnolo immagino che abbia vinto Valverde, che sul telefono di un ragazzino vicino a me sta ancora facendo la volata. Non l’avevo visto, nei quattro di testa, me l’ha detto lui che era passato. Infatti non l’ho nemmeno fotografato e mi mangio le mani.
Ai bus, dietro l’Hofgarten, però, non c’è ressa. Continuo a non capire come faccia questa città a essere piena e a non sembrarlo mai. Persino al pullman della nazionale spagnola c’è poca gente e non ci vuole niente a decidere di star lì ad aspettare. I meccanici, i compagni di squadra, tutti quanti si abbracciano, stappano lattine di non so cosa e brindano cantando. Qualcuno suona il clacson per far più casino, gli rispondono gli altri che stanno già andando via. È festa per tutti, è questo il bello del ciclismo.
Alejandro arriva con la maglia iridata immacolata, perfetta come sempre. Lo sollevano dalla bici per portarlo in trionfo, saltano con lui, vorrebbero coccolarselo come un bambino mentre in realtà rischiano di farlo cadere.
Sorride in un modo bellissimo, Bala. Incredulo e commosso insieme, come chi non si capacita di aver veramente raggiunto la coda dell’arcobaleno e di aver trovato la pentola d’oro.