Esco dalla stazione di Lissone che non sono ancora le nove e gli operai montano già le transenne. Ho l’arrivo in faccia, la partenza a quasi quattro chilometri da lì. Mi scappa un sorriso in risposta a quel metallico bentornata.
Uno dei tanti punti fermi delle corse: può cambiare tutto attorno, ma alla fine ti senti sempre a casa, dovunque tu sia.
Osservo il lungo rettilineo finale, un chilometro e più, dritto tra due file di palazzi. Qua tocca tener salda a terra la bici prima di spiccare il volo da quella che sembra più una pista da decollo cittadina. Fa fresco e nello stesso tempo c’è un umido che mi appiccica tutto addosso, zaino compreso: è un giorno di settembre che non sa ancora decidere da che parte girare. Vado un po’ in testacoda anch’io, in mezzo alla solita calca tra i bus, in quei momenti in cui vorresti essere dappertutto, ma non puoi. Anzi, scegli dove vuoi stare, qui e ora, hic et nunc, dentro a questo marasma che nonostante tutto è un abbraccio. Al dopo ci pensiamo dopo, appunto.
Fuori dai finestrini dell’auto scorre una Brianza che per me è sempre stata un labirinto senza uscita, un posto dalla natura indecifrabile. Roba che, se dovessi puntare il dito a colpo sicuro su una cartina, non saprei quasi dove.
Sul Lissolo l’umido si infila fin nelle ossa, l’asfalto sotto gli alberi è bagnato, qua e là spuntano funghi dalle forme strane e i primi ricci, ancora verdi e semichiusi. Vorrei quasi un maglione, anche se poi alla fine spunta un sole rovente a dirci di aspettare, che non è ancora autunno. Settembre è un marzo al contrario.
Osservo la pendenza della strada: è cattiva mica poco. Chi è davanti fa corsa dura e si vede. Fin dal primo passaggio c’è il piombo nelle gambe, lo si legge in faccia ai ragazzi. Bisogna prenderla sulla sinistra, è un po’ più morbida la salita. L’ho fatta tante volte. – mi dice un signore anziano che incontro in stazione, con quel fare un po’ innocente e un po’ divertito (o sadico), come quelli che dicono che dopo la curva spiana e invece c’è uno strappo ancora più duro e ti ritrovi a lanciare maledizioni tra i denti stretti.
È una corsa che mi sa di inaspettato, completamente. Mi scuote convinzioni radicatesi chissà dove sui suoi luoghi, mi ricorda di non dare per scontato mai nulla, nemmeno un finale su cui punteresti tutte le tue certezze. Come se non lo sapessimo che il ciclismo spiazza, balordo com’è, capace di tirar fuori dal mazzo un jolly qualsiasi all’improvviso. Una carta che oggi ha il sapore della rabbia mista a determinazione, mix di sentimenti che non ha età. Gianni è giovane, forte, ma il suo carattere lo è altrettanto, anche se non si direbbe, dietro a quel viso da bravo ragazzo. Come tutti i giovani che commettono errori e a volte li subiscono anche, quei maledetti errori dei ‘grandi’.
Ed è per questo che poi vorresti spaccare tutto, asfalto compreso, perché vuoi la rivincita, vuoi far vedere che ci sei ancora, che sai farti valere facendo ciò per cui sei lì e nient’altro: pedalare – che non è mai un verbo semplice.
Non so se Gianni sente il mio bravo, tra le pacche sulle spalle, gli abbracci e qualcosa di fresco da bere buttato giù tutto d’un fiato. Forse non sente niente o sente tutto, nel circolo di adrenalina che scorre veloce e ti fa sentire come un ubriaco. Va bene così, non vogliamo niente di più né niente di meno, ci basta sapere che ci siamo rialzati ancora una volta, in barba a tutto il resto e a chi ci vorrebbe tenere in disparte.
Sul treno accendo l’ipod, riproduzione casuale, la canzone perfetta.
Parto da casa, torno a casa.
Adèss paar che ‘l riid,
adèss paar che ‘l vuusa,
raccatta ogni roba, tucoos buta via –
musica d’aria, lama de breva –
troeva el suspiir che sgraffigna la schèna,
rubarà el foemm, sugherà el sass.
Paar dree a murì e de culpu rinass,
sposta la tempesta, la nebia e la tèra,
lasa la sua paas dopu l’aria de guera.[Retha Mazur – Davide Van De Sfroos]