Quella crepa buona | Trofeo Binda 2019

È una giornata che si preannuncia calda fin dal mattino. La giacca è la prima cosa a sparire nel fondo del mio zaino, e non è nemmeno mezzogiorno. L’anno scorso c’erano cinque gradi e una pioggia che non smetteva mai. Una situazione davvero diversa, mi dice Jessica, mentre ci scambiamo due frasi di saluto in inglese, poco prima della partenza. È una delle ragazze australiane che ha vissuto qui per diverso tempo, conosce questi territori che un giorno sembrano il gelido e piovoso Belgio e l’altro si ricordano di essere Italia.

Il foglio firma è nel parco di Taino, una specie di balcone sulle vallate circostanti che – complice l’aria di casa – mi fa respirare a pieni polmoni. Si vede la Rocca di Angera da lì e, in fondo, nella foschia, il Monte Rosa con la neve sopra. Mi sembra persino inutile il palco, con una scenografia già perfetta così. Blanda conseguenza di ciò che pensavo e desideravo il giorno prima, in mezzo a Milano.

Il silenzio, l’essenziale.

La corsa parte e il maglioncino finisce sul sedile posteriore dell’auto, insieme alla giacca. Un paio di panini mandati giù andando verso Orino e poi camminare sulla strada in mezzo agli alberi, con la maglietta a mezze maniche, senza aver freddo. Ci sono piantine di elleboro che spuntano in mezzo alle foglie ancora a terra, insieme ai ricci e alle castagne rimaste lì dallo scorso autunno. Marzo e ottobre, di nuovo. Anche se, a conti fatti, parrebbe più una domenica di maggio – quasi giugno.

Le mie strade sono bastarde, a percorrerle in auto non me ne rendo mai troppo conto. Lo leggo sui volti delle ragazze che andar su costa fatica, che siano strappi secchi o pendenze regolari. E questo caldo inaspettato non aiuta, al pari della pioggia gelata di dodici mesi fa.

Mi sposto verso l’auto, in fondo al paese. Gli abitanti di una casetta che mi è piaciuta fin dalla prima volta che l’ho vista hanno appeso alla staccionata un sacco di bandiere di vari paesi, una sorta di omaggio multicolore che si solleva leggero in aria ad ogni passaggio sul circuito. Il Monte Rosa è sempre là in fondo, a guardare e ad essere guardato – una presenza tutto sommato rassicurante, a questa distanza.

Il gruppo si assottiglia giro dopo giro. A Cittiglio risalgo oltre il traguardo in attesa del penultimo giro. Alcune ragazze sono già nei bus o sedute all’ombra, sfinite. Altre aspettano il passaggio delle compagne ancora in gara, a piedi nudi sull’asfalto, che forse fa meno male degli scarpini o non è ancora rovente come in estate e quindi dà sollievo.

Awful, sento dire ad una di loro. Terribile.

Sì, lo so che è dura. Ma gli occhi stanchi brillano lo stesso, di adrenalina, di sfida, di quella rabbia maledetta (o benedetta?) che ti fa pensare che ci vorresti riprovare subito anche se le gambe bruciano.

Marianne sembra così affamata che potrebbe rifarla tutta e vincerla di nuovo. Guarda in un punto davanti a sé, dritta come un fuso, in piedi, beve, respira e ride forte. Non è una che cede, nemmeno alla fine dello sforzo. È solo quando risuona il suo inno che il suo sorriso si distende, si commuove.

Perché c’è sempre una crepa, anche nel più forte, quella crepa buona che spezza ogni resistenza e lascia passare la gioia.

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