Il mattino sembra identico a quello del maggio di un anno fa, grigio e placido. L’aria è fresca e l’odore familiare del lago mi dice che il tempo cambierà – come, lo saprò solo più tardi. C’è un enorme fenicottero rosa, uno di quegli ibridi strani tra salvagenti e materassini, che galleggia tra le boe, un punto di colore che attira e sorprende lo sguardo che, a quell’ora del mattino, segue soltanto le assonnate sfumature di verde e grigio-azzurro della riva. Persino le prime ammiraglie che imboccano il lungolago sembrano quasi nascondersi alla vista, tra gli alberi. Lugano si accende a poco a poco.
La gente spunta come dal nulla e i corridori inziano ad affacciarsi dai bus. Hanno il viso ancora un po’ addormentato e, probabilmente, la necessità di qualche caffè. Come se mi avesse letto nel pensiero, il tecnico di un team tedesco esce da un bar con un vassoio di cappuccini tra le mani.
Giro un po’ tra i ragazzi, mi perdo tra i saluti teneri dei parenti, i gesti di chi si veste, di chi stringe gli scarpini o il casco e le mosse dei meccanici attorno alle biciclette, per gonfiare una ruota o controllare se la catena scorre come deve, senza intoppi.
È il solito rito della partenza, che si ripete uguale in luoghi sempre diversi e senza il quale nulla di tutto questo può iniziare.
Il caldo prepotente non ci ferma e proviamo a risalire il percorso fino a dove le nostre gambe riescono a portarci. Anche senza pedalare, sento la durezza della strada tutta sotto ai miei piedi che già cuociono nelle scarpe. In un giorno qualunque mi sarei fermata molto prima, ma ormai lo so che in queste giornate i conti con la fatica li farò solo quando tutto tace. E saranno comunque meno salati del solito.
Dicevo, la sento questa strada dura, questo maledetto circuito che spezza le gambe e il fiato. L’aria satura di umidità non aiuta affatto e il lago sullo sfondo appare a metà tra un miraggio e una diabolica tentazione.
Osservo i ragazzi, mentre passano sui tornanti che vanno su fino al GPM. Giro dopo giro il gruppo si assottiglia e sparge elementi un po’ ovunque, come mine vaganti ma senza più innesco. Alcuni non li vedo più, si sono arresi chissà dove. Altri, piuttosto che mettere piede a terra, preferiscono esaurire ogni minima goccia di energia. Se ne fregano del fine corsa che li ha lasciati indietro e delle auto che gli passano di fianco: loro continuano.
Siamo quelli che a metà della salita sono a pezzi e vanno avanti ancora un po’, fino all’ultimo – dice una canzone.
Quelli che arrivano al traguardo, sono consumati dallo sforzo, hanno i muscoli in fiamme e il sudore che crea disegni bianchi di sale sulle divise.
Dai, che è finita, bravo.
Il sole sembra meno caldo, adesso, anche se il tramonto è ancora lontano. Il lago dietro agli alberi del viale ha lo stesso colore del mattino, che alla fin fine è quello di una giornata bella, ma un po’ bastarda.