C’è il sole alto e caldo di luglio e, tutto intorno, l’azzurro del cielo e del mio lago, che riflette il verde pieno delle montagne. Sulla sponda opposta e poco più giù di casa mia c’è la tappa che mi aspetta: la mia prima cronosquadre dal vivo. È una giornata che ha il sapore di un regalo, di quelli da scartare con cura e davanti al quale sorridere.
Pallanza è uno di quei piccoli lungolago piemontesi che riescono a rimanere placidi anche in mezzo al caos – non so come facciano, ma so che mi piacciono davvero tanto. Scorgo dei vicoletti che portano verso il centro, tipici da paesino di lago che ancora vuole tenersi stretta la sua storia, come l’Isola Bella che mi guarda dalla conca che si apre in questo punto del Verbano.
Si respira atmosfera di vacanza, persino tra le ragazze che ingannano l’attesa giocando a pallavolo per strada. Ridono, rido anch’io che quasi mi sorprendo di come si riesca ancora ad essere così leggeri.
Forse è un altro mondo, o forse è semplicemente il modo migliore per vivere questo: tenerci stretto il bambino che eravamo per ricordarci come si fa ad essere grandi davvero.
Sull’asfalto rovente si inizia a sentire un rumore sordo, quasi come gli zoccoli dei cavalli al galoppo. Ruote lenticolari, così piene da sembrare pesantissime mentre invece sono talmente leggere che, se non le sai controllare, potrebbero imbizzarrirsi – come i cavalli, in effetti. Ipnotiche, come il roteare di un vinile sul giradischi. A contatto con l’aria che fendono forte, sanno diventare musicali anche loro, in un certo senso.
È esercizio di ascolto, la cronosquadre: ascolto di se stesse, delle proprie compagne, della bicicletta, della strada e del vento. È sforzo di essere interamente te stessa e interamente tutta la tua squadra.
Nella penombra dell’attesa, sotto al tendone, cerco gli occhi. Ci sono quelli nascosti dietro alle mascherine a specchio che mi parlano di tensione, di mille pensieri che si rincorrono chissà dove, in un punto qualunque là davanti. Ci sono quelli che sorridono e che brillano lì sotto al buio, perché probabilmente la gioia di correre sa essere più forte della paura di fallire.
Infine è rampa, boato di folla, partenza e poi silenzio per quindici chilometri, col sole a picco sulla schiena e le mani quasi giunte sulle appendici.
È una sorta di armonia fluida in continuo movimento, la cronosquadre, come quelle bolle nelle lava lamp che cambiano forma istante dopo istante e restano comunque unite, anche se a volte capita di perderne un pezzettino per strada. Noi donne sappiamo bene come si fa.
Esercizio di ascolto, dicevamo. Ma anche esercizio dei propri limiti, delle proprie forze.
Spingere il rapporto più duro a disposizione è testarsi al massimo grado, capire fino a dove si può arrivare e su chi si può contare realmente quando non ne hai più e ti occorre qualcuno che si metta davanti a tirare per lasciarti respirare.
È ciclismo, sì, ma in fin dei conti è la vita stessa.