Dai finestrini del treno vedo scorrere la campagna, con i campi ormai pronti per la mietitura. Non vedo già più i papaveri, quest’anno forse ce ne sono stati meno del solito. L’aria condizionata a palla mi frega e, quando scendo a Lissone, una bolla di calore mi costringe a boccheggiare. Bentornata in Brianza.
Sarà che è estate e fa caldo già alle dieci del mattino, ma sembra tutto più calmo del solito, un po’ più sonnolento, anche se la piazza e le vie circostanti sono già piene di umarell brianzoli che osservano le biciclette – come sempre -, persone che zigzagano a piedi o su due ruote e bambini degli oratori che, a giudicare dalle loro espressioni, sono stati portati in mezzo a qualcosa che non si aspettavano affatto. Andiamo tutti senza fretta.

Mi diverto ad osservare i nipotini di Elisa Longo Borghini: le regalano disegni, le girano attorno, la abbracciano ogni volta che capita loro a tiro. Se potessero, credo che partirebbero per la tappa insieme a lei.
Più in là vedo due ragazzini chiedere un selfie a Lucinda Brand, mentre un signore chiede loro chi sia. “È Lucinda Brand!”, rispondono, come se fosse la cosa più normale del mondo.
Ma qui, di scontato, non c’è nulla.
Non è scontata tutta questa gente uscita di casa una rovente mattina di luglio per assistere alla partenza di una corsa ciclistica che non sia il Tour de France. Non è scontato conoscere la versione femminile di questo sport e tutto sommato non è nemmeno scontato accettarla.
Sono tante le bocche che si riempiono di discorsi altisonanti sulla parità, ma nella dura realtà tocca ancora rimboccarsi le maniche e lottare per questo. La cosa bella, qui, è che lo si fa con il sorriso sulle labbra: quello di chi improvvisa un balletto per strada o sul palco, quello un po’ imbarazzato di Marianne Vos quando le mettono in braccio una neonata per una foto ricordo, oppure quello usato come saluto silenzioso e rapido, una specie di cenno d’intesa tra di noi.

A Carate aspettiamo l’arrivo della tappa facendo scorta di tutta l’ombra possibile, sedute sul bordo di un marciapiede. Potrei fare la centrifuga alla maglietta e ne uscirebbe almeno mezzo litro d’acqua.
Ci scordiamo completamente della gara, anche se in un certo momento la curiosità mi stuzzica e mi faccio svelare qualcosina da Twitter. Non abbastanza, però. Mi piace così tanto estraniarmi dal resto della corsa, quando ci sono così dentro, e vivere solo per quei precisi istanti in cui siamo “a contatto”, percepire tutto nel modo più forte possibile. L’inaspettato, soprattutto.
Prima della linea bianca, infatti, non puoi mai dare niente per certo. A volte nemmeno se ci stai arrivando da solo. Voltarti ti frega, alzare un pugno ti frega. Il ciclismo ti frega, dice qualcuno che conosco. A volte beffa e toglie, a volte regala a piene mani. Nulla di scontato.
(Il treno per tornare a casa cancellato, invece, quello sì che era garantito.)
