Cosa significa “coscienza planetaria”? È uno dei concetti con cui l’antropologo Marc Augé caratterizza la sua idea di società, insieme a quello di globalizzazione. E quello che ho scelto come “ultima parola” della mia tesi di laurea. Eccoci qui con il secondo approfondimento, dunque – anche se forse è più un secondo cappello introduttivo.
Nel suo testo principale, “Nonluoghi”, Augé definisce l’epoca contemporanea proprio attraverso i due termini di coscienza planetaria e globalizzazione, intendendoli come due lati diversi ma complementari di quel processo generale che lui chiama “mondializzazione”. È stato proprio il primo dei due, però, a darmi una scossa particolare: nel momento in cui mi sono trovata di fronte la sua caratterizzazione come sociale (infelice) ed ecologica (inquieta), mi si è aperta immediatamente davanti la possibilità di far sfociare la riflessione che stavo facendo in un ambito in qualche modo “ristretto” in uno più universale.
Augé sembra ritenere che questa coscienza planetaria sia presente in ciascuno, ma secondo me non è così e credo che ci possano essere molti esempi della situazione attuale, globale, che lo dimostrano (uno estremamente eclatante? Trump può bastare?).
Il punto è che non siamo capaci di pensare al di fuori di quel cerchio invisibile, più o meno largo, che circonda la nostra persona e poco altro.
Abbiamo smarrito la capacità di essere in relazione, in primo luogo con noi stessi e con la nostra corporeità, e in secondo luogo con gli altri esseri umani e con il mondo nel quale tutti ci troviamo a vivere. Abbiamo perso – o quantomeno accantonato – l’idea di responsabilità, che si lega a doppio filo proprio a quella della relazione.
E allora è facile (lo è?) vedere come sia l’aspetto ecologico sia quello sociale siano qualcosa che ci troviamo ad affrontare quotidianamente, scontrandoci da più parti con evidenti difficoltà soprattutto dal punto di vista politico e culturale.
Ecco perché il lavoro filosofico che ho portato avanti tra febbraio e marzo mi ha condotta, alla fine, a ritenere che il passaggio essenziale da compiere sarebbe quello di
(ri)costruire una coscienza planetaria, ovvero imparare a (ri)pensare noi stessi, gli altri e tutto ciò che ci sta attorno non escludendo, ma includendo il più possibile ogni dimensione.
Questa idea si sposa perfettamente anche con le tematiche affrontate da Papa Francesco nell’enciclica Laudato si’, pubblicata cinque anni fa e ancora perfettamente attuale. Tant’è che ho immediatamente riconosciuto nel concetto di ecologia integrale, sempre molto presente negli interventi del pontefice, proprio uno dei punti chiave della mia riflessione.
L’ecologia integrale non è altro che un approccio capace di comprendere ogni aspetto dell’esistenza umana. Non si tratta, quindi, solo di attenzione nei confronti dell’ambiente, ma di un’ottica allargata che riguarda tutto quanto il nostro modo di essere al mondo e nel mondo.
Ai meno avvezzi al magistero pontificio potrebbe sembrare quasi strano che un Papa parli di inquinamento, di tecnocrazia o di economia. O, viceversa, si potrebbe pensare che Francesco sia il primo a farlo, perché il riscontro mediatico che ha è piuttosto elevato. In realtà la storia della Chiesa è piena di parole su questi argomenti. Persino Benedetto XVI ha affrontato in moltissime occasioni tali tematiche, parlando – guarda un po’ – di ecologia dell’uomo e solidarietà globale.
Il punto di partenza di tutte queste riflessioni è senza dubbio la Genesi e il rapporto che viene lì descritto fra l’uomo e il creato: Dio pone l’essere umano come custode della Terra, non come padrone.
Ecco da dove nasce la cura, dove ha origine la responsabilità: da una vocazione.
Qualcuno potrebbe dire che non serve (o non basta) la fede per avere un atteggiamento di attenzione e rispetto verso la natura e la persona umana e non ho alcun problema a concederlo, in fondo si tratta di scelte personali. Ma di sicuro, essendo io credente, mi sento sulle spalle un bel peso in più a questo riguardo. E trovare conferma dei miei pensieri anche in questo ambito mi ha sempre confortata, in un certo senso.
Insomma, preso atto che è in corso una crisi del modo di pensare se stessi e l’altro (l’uomo così come il mondo), la domanda è: ne possiamo uscire? Come? Non c’è sicuramente una risposta unica a tale interrogativo, e, come scrivevo alla fine del post precedente, la soluzione a cui sono arrivata non può andar bene per tutti.
Una cosa certa, forse, c’è comunque. Ed è che