Non ci ho mai pensato prima, in maniera esplicita, a quanto contino i sensi nel ciclismo. Contano sempre, ok. Ma qui, in un certo senso, si amplificano.
Corsa dopo corsa, ho imparato sempre di più cosa significhi cogliere i particolari delle cose, grazie a ognuno di loro: per raccontare, per scavare più a fondo nell’esperienza, per portare a casa una storia, anche piccola.
Ho imparato a farlo persino da lontano, osservando luoghi, volti e gesti attraverso uno schermo, quando è l’unico modo per viverli. Prima ancora che questa maledetta pandemia ci costringesse a farlo praticamente ogni giorno.
È stato un processo intuitivo, in pratica. Ma me ne sono resa conto solo rileggendo gli appunti sparsi su uno dei miei quaderni mentre guardavo le Strade Bianche: un insieme di sensazioni in cui sapevo – e so – di poter riconoscere l’essenza di questo sport.
Rimessi un po’ in ordine, sono questi. E sì, ne ho contato uno in più.
Primo: la vista.

Dritto davanti a sé, di lato e persino alle spalle.
L’erba giovane è di un verde chiaro e acceso. I campi color ocra, le viti scure disposti in filari regolari, i casolari sparsi qua e là, i cani che spuntano all’improvviso, le strade bianche di polvere che tagliano in due i colli toscani che, laggiù sullo sfondo, sembrano quasi blu.
La luce che attraversa la polvere, abbaglia lo sguardo, avvolge ogni cosa come in una visione onirica e poi si spezza con le ombre ancora lunghe ai piedi degli alberi.
Secondo: l’udito.
Lo scricchiolio delle biciclette sulla ghiaia, le moto che sfrecciano accanto, il ronzio dell’elicottero sopra la testa e quello di centinaia di catene che scorrono, si inceppano, scendono. Le imprecazioni, i ripetuti inviti a “tirare”.
Niente urla di incitamento – o quasi: sono pochissime, nascoste in qualche canto più o meno isolato in mezzo agli sterrati dove gli abitanti del luogo (e qualche tifoso colombiano arrivato qui da non si sa dove) si sono azzardati ad andare a far compagnia ai fotografi nonostante una zona rossa in vigore.
Terzo: il gusto.

Il sapore della polvere che si solleva sotto le ruote, ricopre ogni cosa e si mischia al sudore sapido, ai gel ingollati in un attimo e all’acqua che prova a dissetare tutta quell’arsura che impasta la bocca.
Quarto: l’olfatto.
L’odore acre della pelle accaldata. Il profumo della terra che si risveglia, alla fine dell’inverno, e quello dei primi alberi in fiore – nuvole bianche e rosa – che si vedono a bordo strada. Il bagnoschiuma che, alla fine di tutto, lava via ogni cosa (in realtà non lo so se ora la doccia in bus si faccia, ma questo è uno dei ricordi più forti che mi porto dietro).
Quinto: il tatto.
I calli che si fanno sentire nonostante i guantini, a ogni sobbalzo. Il bruciore di una ferita che sanguina e tira, il dolore dopo una gomitata o dopo una caduta. Il caldo del sole di marzo, il fresco dell’acciottolato di Piazza del Campo quando si supera il traguardo e ci si crolla sopra perché le gambe non reggono un metro di più.
Le mani dei soigneurs che per primi accolgono la stanchezza, abbracciano, consolano e donano conforto ai propri corridori.
Sesto: il senso che li raccoglie tutti.

Quello per cui Mathieu Van Der Poel, quando si è detto “Devo imparare a pensare”, l’ha fatto davvero: un lampo negli occhi chiari che do per scontato dietro alle lenti scure, un guizzo nelle gambe per lasciarsi alle spalle persino l’arcobaleno di Alaphilippe.
Il sesto senso è cuore e testa, insieme.
Foto: LaPresse