Tra le mie riletture, dopo qualche anno, è tornata una delle storie che più ho amato fin da piccola: “Papà Gambalunga”, il romanzo di Jean Webster da cui è stato tratto anche un cartone animato che sicuramente tanti miei coetanei ricorderanno (soprattutto la sigla cantata da Cristina D’Avena).
Ricordo benissimo di aver desiderato così tanto aver tra le mani questo libro, che sembrava introvabile dalle mie parti, e di averlo infine ricevuto in regalo da amici di famiglia torinesi. Da allora l’ho letto e riletto non so più quante volte.
E proprio pochi giorni fa, mentre mi accompagnava sul treno da e per Milano, ho avuto una specie di folgorazione: Jerusha/Judy Abbott mi somiglia. O io somiglio a lei. Insomma, ci siamo capiti: nello scorrere delle lettere che compongono il 99 % del romanzo ho ritrovato qualcosa anche di me.
È sempre quella meravigliosa magia che i libri nascondono nelle loro pagine e che emerge quando meno ce lo si aspetta.
Jerusha esce dall’orfanotrofio in cui è stata allevata per diciotto anni grazie ad un anonimo benefattore che decide di finanziare i suoi studi, perché colpito dalla sua abilità nello scrivere. In cambio solo una lettera al mese, come aggiornamento sui progressi della formazione e mezzo per fare pratica con la scrittura. Ma a Jerusha non basta l’arido quanto finto John Smith come nome a cui indirizzare quelle lettere. Una persona senza un vero nome e senza un volto, solo un’ombra con due lunghissime gambe: è tutto ciò che riesce a vedere di lui. Per questo John Smith diventerà per lei “Papà Gambalunga”, come una specie di ragno caratterizzato, per l’appunto, da zampe piuttosto lunghe.

La corrispondenza di Judy – come si fa chiamare non appena iniziata l’università – è esuberante: dalle sue parole risalta tutta la creatività e la voglia di vita represse durante gli anni trascorsi in orfanotrofio. Lo stile che passa dall’ironia pungente all’emotività più sfrenata – sia essa gioia, tristezza o rabbia – attraverso qualche espressione ‘filosofica’ è ciò che mi fa sentire vicina a lei. Anche se Judy si rivela decisamente meno riservata e più intraprendente di me!
Il valore che dà all’immaginazione, alle cose semplici ma vere, all’esistenza vissuta cercando di trovare in ogni istante un motivo di bellezza sono tutte qualità che vorrei saper tenere con me sempre di più e invece ogni tanto ancora mi sfuggono.
Fortunatamente mi basta aprire il libro e andare a cercare tra le frasi sottolineate (puristi, passate oltre, io sottolineo i libri) quelle che mi ricordano ciò che mi capita di scordare quando il caos mi avvolge.
Non sono i grandi piaceri quelli che contano nella vita. È il saper approfittare delle piccole cose; io ho scoperto il vero segreto della felicità, Papà, che consiste nel vivere l’attimo presente. […] Molte persone non vivono, ma corrono ansiose qua e là. Tentano di raggiungere obiettivi lontani, all’orizzonte, e nell’ansia di buttarsi rimangono senza fiato e quasi cieche non vedono tutte le cose belle che stanno loro intorno. […] Ho deciso di sedermi vicino al sentiero e fare una piccola provvista di felicità.
Come finisce il romanzo? Beh, per saperlo dovrete leggerlo. Sappiate solo che vi attende una bella sorpresa.
D’altronde, come dice Judy,
ciascuno di noi ama avere delle piccole sorprese; è un desiderio naturale e umano.