Ciò che salva | GP Lugano 2019

Arrivo a Lugano, scendo dall’auto e inizia a piovere. Ho già capito che è una di quelle giornate in cui le previsioni del tempo non sono azzeccate, di più.
Da qui al pomeriggio perderò il conto di quante volte ho indossato e rimesso nello zaino il kway. È un’estate che non vuole farsi vedere, ma si sente eccome nell’umido caldo che penetra fino nelle ossa e appiccica tutto addosso.

C’è la solita calma piatta con il lago che si muove lento sullo sfondo e, come il cielo, non sa che colore prendere. La città è pigra, la domenica mattina, e rende pigri persino gli addetti ai lavori che devono preparare tutto per la corsa. In giro non c’è quasi nessuno e salutare Vincenzo riesce a sembrarmi la cosa più normale del mondo – più o meno.

Lo straordinario e il normale, sempre insieme, in questo sport.

Mi arrampico per le solite curve fino ad un punto che sembra più bosco che città. Ricomincia a piovere e mi riparo sotto le piante, addentando il mio panino al salame mentre aspetto il passaggio. Potrei quasi ricoprirmi di muschio e diventare tutt’uno con la vegetazione, in quel punto.

C’è la fuga che si urla qualcosa e il gruppo che insegue, non lontano, ma piuttosto ridanciano e tranquillo. Sento qualcuno chiacchierare scambiandosi parole a metà tra l’inglese e l’italiano, un modo per passare il tempo o forse semplicemente per non sentire la fatica che ad ogni giro entra nelle gambe e fa selezione.

Torno in centro e mi sembra di essere stata completamente altrove, come se stessi vivendo due corse diverse e non una sola.

Salire e scendere è sempre un viaggio, seppur minimo. Si arriva cambiati, alla fine.

Dalla telecronaca percepisco confusamente (anzi, più dal boato della gente nella zona del traguardo) che Ulissi e Nibali hanno provato ad andar via, loro che queste strade le conoscono a menadito. Sono di casa, qui, potrebbero correre ad occhi chiusi.
Li raggiungono, due sono compagni, uno è il “quinto incomodo” che porta il cognome di un filosofo dell’Ottocento amico di Hegel.

Manca quasi un chilometro e, come se non aspettasse altro, il diluvio si scatena di nuovo. L’acqua sembra quasi un segno che benedice la volata di Ulissi. A volte basta solo un’aria familiare per farci tornare ad essere chi eravamo, a segnare nuove rinascite. Vale anche per Fabio Aru, lo vedo sorridere come nei tempi migliori, gli leggo in volto tutta la voglia di ricominciare a volare alto.

Poi smette di piovere – o sono io che non la sento più – ma osservo le gocce scivolare sui caschi e sulla pelle, miste al sudore e alla terra che si fissa in certe pieghe del viso, non si sa come. Sembra una specie di promemoria del Nord, anche se non c’entra niente qui.

Gli occhi di Diego sono sgranati, brillano. Scuri come quelli di Lia, sua figlia, che lo guarda fiera e poi gli si getta al collo.

Ecco dove tutto si incastra alla perfezione: nelle mani che si stringono e negli abbracci che rimettono in sesto, quando superi le linee bianche e pensi che sei lì lì per andare in pezzi. Che tu sia estremamente felice, stanco morto o deluso, c’è sempre qualcuno pronto a salvarti.

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