Bollicine | Giro d’Italia 2020 – St. 14 Conegliano-Valdobbiadene

Se chiudo gli occhi e penso all’odore dell’uva matura, mi viene subito in mente quello dell’uva americana che cresce solitamente in un angolo del giardino, scura e dal sapore pungente che non mi piace granché. Eppure, il suo, è uno di quei profumi che mi parla di autunno e che in questo anno strambo è mancato: non è maturata e quel poco che c’era è diventato cibo per i passeri.

Sui colli tra Conegliano e Valdobbiadene l’uva ha sicuramente un altro sentore e un altro colore, già vendemmiata e pronta per essere trasformata in oro liquido da imbottigliare, a differenza di maggio quando gli acini sono ancora appesi ai tralci in attesa di maturare e di lasciarsi attraversare dai raggi del sole estivo. Per terra ci sono le foglie morte, che mi fanno pensare a questo Giro di ottobre come a un Lombardia lungo tre settimane.

Tutto ribaltato di continuo, ogni cosa e ogni pensiero, ogni sicurezza, per colpa di questo virus bastardo che ci ha costretti a rimettere i programmi in fondo al cassetto per una prossima volta che chissà se e quando arriverà. Ci aggrappiamo a quei pochi sprazzi di una normalità che ci tocca ricostruire praticamente da zero, dove respirare a pieni polmoni sembra ora più che mai davvero un’impresa.

Mi ritrovo con i pugni stretti al pensiero che in una situazione diversa sarei stata lì. Invece uno schermo e svariati chilometri di distanza mi separano da quei filari che virano già verso il verde acido di una stagione passata, pronti al riposo dell’inverno e disposti in file regolari su pendii dai profili apparentemente dolci ma con pendenze nascoste che sanno essere a tratti cattive.

L’iride di Filippo passa come un lampo su quelle strade che non danno tregua alle gambe e spezzano il fiato di continuo, nella lotta contro il tempo. Mangia e bevi, si dice così. Anche se qui forse bisognerebbe invertire i due termini, ché da queste parti se non bevi, qualcuno di sicuro ti guarda storto.

La gente è in estasi (e probabilmente anche un po’ ubriaca), su a Ca’ del Poggio – un pezzo di Fiandre in mezzo al Veneto. Ma per qualche ora può decidere di dimenticarsi di ogni cosa e ascoltare solo ciò che le sta attorno o dentro, come il rombo profondo delle ruote lenticolari sull’asfalto o il sangue che frizza, come le bollicine che corrono veloci in un bicchiere di Prosecco:

perché il ciclismo, come l’amore, trova forme nuove e inventa storie sempre diverse, ma nella sua essenza, quando è vero, non cambia mai. È un’ancora.

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