Lugano è le case fatte da blocchi di parallelepipedi spigolosi e le curve che si snodano giù verso il lago o su verso la parte alta della città, dolci solo in apparenza. Mi chiedo come fosse nell’Ottocento mentre la osservo dall’alto, seduta sotto al sole cocente dell’ora di pranzo su uno spiazzo d’erba completamente secca e aspetto un altro passaggio dei corridori. Fa caldo e vanno piano anche loro, tra un giro e l’altro passa così tanto tempo che ne ho un sacco per me. Per riprendere fiato e per recuperare quel po’ di solitudine di cui ogni tanto sento di aver bisogno.
Poco sotto di me una villa dai muri chiari, con una torretta in cima, interrompe queste geometrie così rigide che al di qua del confine sembrano essere le uniche prescelte da chi progetta queste abitazioni. Dietro alla curva che il monte Brè disegna sulla superficie chiara del Ceresio, leggermente increspata dall’aria che ogni tanto dà sollievo anche qui a Paradiso, c’è quel “piccolo mondo antico” di cui narra Fogazzaro. Nella mia testa mi sono sempre immaginata quel romanzo come il racconto di una piccola oasi di pace, ma sono cresciuta su un lago che ha ispirato Chiara e Sereni e so bene che ogni città o paese che si affaccia su uno specchio d’acqua cela segreti, drammi e storie dietro alle sue placide apparenze. Questo non fa certo eccezione, e nemmeno questa corsa.
Passa la fuga e poco dietro vedo Fabio Aru che si è lanciato fuori dal gruppo. È da solo e spinge, in piedi sui pedali su queste strade che conosce bene, alla rincorsa di qualcosa che gli manca da troppo tempo, o forse via, alla larga da quei fantasmi che lo tallonano da vicino e gli si aggrappano alle gambe.
In fondo il confine tra ciò che si cerca e ciò da cui si prova a fuggire è sempre così labile che, a volte, non si sa davvero a che punto siamo. Ci sono casi in cui possono essere persino la stessa cosa, o magari due facce della stessa medaglia. In ballo, però, in qualsiasi ricerca che ci porti più o meno lontano, ci siamo sempre noi stessi.

Penso a Kilian Frankiny che vedo arretrare giro dopo giro mentre un manipolo di suoi fan lo attende più o meno negli stessi punti in cui mi trovo anch’io, tracciando con un gessetto bianco sull’asfalto il suo diminutivo – Kili – a caratteri cubitali e mangiando formaggio e un pane che sembra una nuvola in uno dei pochi sprazzi d’ombra di quell’angolo di salita. Oppure a Filippo Zaccanti con cui mi fermo a chiacchierare, mentre scendo verso il lungolago, di fatica, di futuri incerti e presenti altrettanto precari, ma sempre con il sorriso sulle labbra.
Il ciclismo è anche questo: a volte ti dice tutto in faccia senza farsi problemi, mentre a volte non resta che immaginare quanto ci sia dietro a un’espressione o a un gesto qualsiasi. Un po’ romanzo, un po’ poesia.
Come Gianni Moscon che allarga le braccia e alza il pugno in aria sulla linea del traguardo e, quando abbassa le lenti a specchio, ha lo sguardo luminoso e schietto che brilla di speranze concrete sopra alle quali c’è un cartellino con la scritta “Tokyo”. Non vuole lasciarsi definire dagli errori commessi tempo fa e sono proprio i suoi occhi a dimostrare che c’è tutta la voglia di andare oltre. Ché per essere pecore nere non serve essere necessariamente degli stronzi, ma un po’ caparbi sì.