Raggi di luce | UEC Road Championship – Trento 2021

Trento è un flashback: i colori delle case del centro storico, la luce obliqua di settembre, l’Adige azzurro chiaro, le montagne tutt’intorno. È la stessa identica sensazione di tre anni fa a Innsbruck (a cui peraltro somiglia molto): quella di trovarmi in uno di quei posti in cui, benché non ci si sia mai stata, fin dai primi passi riesce ad apparirmi come un luogo estremamente familiare.

Non lo so se sia colpa del ciclismo che trasforma tutto in casa, ogni volta, ma tant’è.

Il blu dell’Europeo è ovunque mi volti, sulle bandierine che svolazzano appese fra i i vicoli e i palazzi storici e persino sui grembiuli che alcuni ristoratori indossano mentre servono clienti che parlano di tutto tranne l’italiano o il tedesco. È quel clima di festa tipico di occasioni come queste, che ritroviamo nei corridori che ci guardano, ci sorridono e ci salutano anche se non ci conoscono, come Joao Almeida, Rui Costa e Ruben Guerreiro che ci gridano “Ciao, buon appetito!” nel vederci con il sacchettino della panetteria in mano, oppure nel nugolo di bambini appostati in un punto della salita fin dal mattino, che agitano bandiere tricolori, cappellini e striscioni applaudendo a chiunque passi (senza dimenticare di chiedere borracce in regalo, con buona pace di chi vorrebbe proibire questo gesto).

È che le corse sono come calamite, non sappiamo resistere nemmeno un istante al richiamo di quelle benedette sirene. O forse non vogliamo resistere, alla fine, è questo il punto.

E a Ulisse, qui, faremmo un baffo: se ci legassero a un palo, come nel più epico dei poemi, probabilmente saremmo in grado di divellere anche quello pur di stare a bordo strada a prenderci il vento in faccia e a farci venire i lividi sulle ginocchia o i calli sulle mani per il troppo stringere la macchina fotografica.

Ha un che di ancestrale, questa cosa, e lo percepisco soprattutto quando sento i tifosi battere sulle transenne dell’ultimo rettilineo trasformati in tamtam di tribù contemporanee e il cuore si adegua automaticamente a quel ritmo indiavolato e primitivo. O quando la voce esplode da sola in un “dai, forza!” oppure, al contrario, si spezza e ammutolisce mentre osservo passare chi trasuda fatica, con lo sguardo rivolto al cielo o giù, verso l’asfalto.

Mi accorgo che la luce del mattino e quella del pomeriggio si assomigliano fra loro, in questa specie di mezza stagione fra l’estate e l’autunno: anche se il sole si sposta nella sua quotidiana rotazione, le sue lame di luce continuano a tagliare le ombre, via via sempre più lunghe, con quell’inclinazione obliqua che abbaglia persino dietro a un paio di lenti a specchio.

Fra le piante che iniziano lentamente a cambiare colore e castagne matte che rotolano ai bordi dei marciapiedi, i corridori girano, insistono, mollano, attaccano. Una ragazza del Nord Europa si scusa con un’avversaria con cui è rimasta staccata dal resto del gruppo: “Sorry, I can’t…”, le sentiamo dire mentre il resto della frase si perde per aria. Non ne ha più, né per aiutarla né per aiutare se stessa, eppure spreca fiato prezioso per chiedere scusa.

Penso a quanto ci viene difficile pronunciare una parola così semplice nella vita di tutti i giorni, roba che percorrere otto volte di seguito la stessa salita sembrerebbe quasi più semplice che ammettere un certo tipo di sentimento. Eppure è nel massimo della fatica che si riesce a essere più sinceri. Più forti, nella debolezza, proprio come scriveva san Paolo in una delle sue lettere.

Per il secondo giorno di fila, quando la corsa sta per finire, fisso lo sguardo su un grosso nuvolone grigio che ha rabbuiato tutto, sperando che si sposti e che la luce del tardo pomeriggio torni ancora una volta a disegnare ombre nette e a illuminare il centro di Trento al momento giusto. Gli ultimi raggi di sole della domenica, prima di planare in un tramonto così bello da sembrare dipinto, colpiscono dritti la medaglia d’oro al collo di Sonny Colbrelli.

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