Sono seduta in auto ad aspettare il penultimo passaggio della corsa, entrambi i finestrini sono abbassati e il tacatacataca sordo dell’elicottero non riesce a sovrastare il cinguettio frenetico degli uccellini che svolazzano tra i rami pieni di fiori.
La bruma questa volta nasconde il monte Rosa agli sguardi, il sole è pallido ma finalmente un po’ più caldo, come se sapesse che questo è il primo giorno di primavera. L’anno scorso, qui a Orino, c’era ancora qualche traccia di un’ultima nevicata, adesso c’è un giallo secco e sparso che cerca di virare al verde dove e come può.
Cambia il clima, cambia la storia, cambiano un sacco di cose – di continuo e non sempre in meglio – e allora, a volte, non resta che aggrapparsi con tutte le proprie forze a ciò che rimane. A quelle certezze grandi o piccole a cui si può sempre tornare, come in un porto sicuro in cui gettare l’ancora. A quegli attimi così intensi da farti scordare quasi tutto il resto. In una parola: alla felicità.
Certo, in un mondo che trema sotto i colpi di un folle, provare a essere felici sembra solo pura utopia, eppure vogliamo esserlo e continuiamo a batterci per questo, oltre il senso di colpa, la paura o la nausea che ci occludono la bocca dello stomaco a fasi alterne.
Fin dal mattino ho inchiodato in testa il ritornello della nuova canzone di Francesco Gabbani. Lo canticchio nella mia testa mentre la fanfara dei bersaglieri sfila correndo e suona dentro lo spiazzo del foglio firma, con le ragazze straniere che osservano con occhi curiosi i cappelli che strabordano di piume lucenti e mai ferme. Continuo a farlo mentre mi rimetto in macchina per raggiungere un punto del percorso che mi sono appuntata sulla tabella di marcia e mi torna in mente quel banale “grande” balbettato a Tadej Pogačar un paio d’ore prima.
E mentre sono lì che aspetto che il gruppo, che si frammenta sotto i continui attacchi – gli unici che vorrei esistessero –, ripassi dal gran premio della montagna, le parole mi appaiono come una sorta di giustificazione (inutile?) a questa voglia di vivere che ci brucia dentro.

Volevamo solo essere felici
Francesco Gabbani – Volevamo solo essere felici
Come ridere di niente
Masticare sogni audaci
E fidarci della gente
Solo essere diversi
Penso a Lachlan Morton che non ce l’ha fatta a salire in sella per gareggiare, perché il peso di una guerra così vicina si è fatto sentire persino sul suo solito ottimismo, e ha deciso di andare in bici da Monaco di Baviera fino al confine polacco con l’Ucraina per raccogliere fondi da destinare ai rifugiati. Penso a noi che invece siamo qui a correre, a tifare, a ridere e a salutarci come sempre in una domenica di marzo qualsiasi. Come se niente fosse, ma non è vero e lo sappiamo benissimo tutti. E in fondo mi sembrano entrambi modi validi di affrontare questa cosa che ci incasina ancora una volta la vita, come se due anni di pandemia non avessero fatto abbastanza.
La volata non la vedo, ma quando mi trovo di fronte il sorriso della maglia iridata capisco subito com’è andata a finire su questo maledetto drittone che sale da Cittiglio verso Brenta.
“Grazie, thank you!”: Elisa Balsamo continua a ripetere solo queste parole, come fa sempre quando vince, con la voce spezzata dalla fatica e dall’emozione, mentre stringe forte le sue compagne in una combinazione di arcobaleno, stelle e tricolore che brilla forte sotto il sole che inizia a tramontare.
Per un po’ non c’è spazio per nient’altro se non per la condivisione, la gioia, gli abbracci e i gesti di cura dei soigneurs.
Volevamo solo essere felici. Lo siamo.
