Siamo solo io, il cric croc delle mie scarpe sui sassi della spiaggia e lo sciabordio quieto delle onde del primo mattino. E due anatre poco più in là.
Lo conosco a menadito, questo posto. La prospettiva dei monti che cambia, rispetto a Luino, anche se sono sempre gli stessi. Cannobio che si apre sonnacchioso là di fronte, incuneato ai piedi della sua valle. E i castelli di Cannero che sorvegliano il lago evocando, come un’ombra nera che emerge dalla foschia, i sanguinari pirati che un tempo ci vivevano.
Mi prendo questi dieci minuti di pace fissando il battello che taglia in due l’acqua, dritto verso la sponda piemontese, prima di rimettere piede nel vortice di una corsa dopo mesi. Prima di farlo a Maccagno. A dieci minuti di auto da dove vivo, dove c’è la mia spiaggetta preferita, dove per la prima volta il ciclismo arriva a portare il suo casino di colori e di festa e io mi guardo attorno con la piena consapevolezza
di essere finalmente tornata a casa e, contemporaneamente, di essere già a casa.

Come le onde che continuano nel loro incessante avanti e indietro, i rumori e i suoni mi arrivano a sprazzi. Quello che sento, soprattutto, è il silenzio. Quello di cui ho bisogno per distendere i pensieri. E anche stavolta il ciclismo sa prendermi per mano e darmi perfettamente ciò che mi serve, senza chiedere altro.
Quando mi fermo poco fuori Mesenzana, ad aspettare il passaggio, c’è un momento in cui cinguettano solo gli uccellini e il vento fa stormire l’erba. Niente auto, niente parole, niente di niente. Poi la corsa passa come un fulmine, tre in fuga e il gruppo subito dietro, e via anche io verso Cittiglio e la compagnia di colleghi pronti per salire al GPM.
Questo Binda è una di quelle corse in cui il resto intorno quasi scompare, siamo solo io e il flusso delle cose. Ascolto il rumore delle bici, dei freni che stridono in discesa, della fatica che fa ansimare chi soffre sulla salita di Orino, si accartoccia sulla bici, eppure continua a spingere sui pedali nonostante i muscoli invochino pietà.
Quando Shirin Van Anrooij va via leggera come i suoi ventun anni, la sensazione è che sarà lei a farcela e nessun’altra. Ciclocross o strada non fa differenza, quando si tratta di andare a vincere e sapere come farlo. Ci sono altri due “Van” che lo insegnano altrettanto bene.
Basta dar retta a quel fuoco sacro che brucia dentro e dà il coraggio di essere abbastanza pazzi da provarci, a prescindere da come andrà.
Sul traguardo è tutto un “brava, Shirin!”, come se fosse figlia di tutti, e non importa che sia olandese e non italiana. Lei esulta, si prende la testa fra le mani come se non ci credesse, ma poi lascia spazio a un unico, lunghissimo sorriso.
Dietro Elisa Balsamo regola le altre in volata e poi si fionda a stringerla in un abbraccio che è un’esplosione di gioia. Non la vorrebbe mollare, nemmeno quando arrivano Amanda Spratt e Gaia Realini, anzi, la gioia si moltiplica e racconta ancora una volta di quanto significhi fare ed essere squadra.

Quando esco dalla sala stampa mi sembra sia passato un sacco, invece non è trascorsa nemmeno un’ora e tutto è di nuovo sfumato in minuzie inutili alla cronaca. Come funziona il tempo, non penso riusciremo mai a capirlo, possiamo solo fermarlo in qualche punto e poi portarcelo dietro nella memoria.
Per questa corsa bastano due versi di Sereni.
In me il tuo ricordo è un fruscìo
Vittorio Sereni, “In me il tuo ricordo”
solo di velocipedi che vanno