Gimme! Gimme! Gimme! | Ronde Van Vlaanderen 2023

Due giorni di pioggia e poi nulla del sole promesso dalle previsioni meteo. Il cielo sopra Bruges è ancora lattiginoso e nelle ossa sentiamo un freddo che non ha niente a che vedere con la primavera che brilla nei narcisi gialli e bianchi sbocciati più o meno ovunque in città.

Grote Markt è stracolma di gente che picchia sulle transenne come un unico cuore in sincrono che batte per accogliere ogni corridore. Peter Sagan regala una delle sue impennate e già ci manca, mentre la bandiera gialla con il leone delle Fiandre sventola, piccola o grande, da ogni angolo. La Ronde è come (o forse più di) una festa nazionale, in Belgio, e basta guardarsi attorno in questa Domenica delle Palme per capirlo.

Entrare sull’Oude Kwaremont è come varcare la soglia di un universo parallelo. I rivoli di fango che scivolano tra le fessure del pavé e si mischiano alla birra che scorre già a fiumi alle undici del mattino fanno di questa striscia di pietra che sale e scende senza troppa pietà un luogo in cui sacro e profano sono una cosa sola.

Camminarci sopra è come camminare sul Carrefour de l’Arbre o nella Foresta di Arenberg: lo guardi da vicino, lo tocchi, e ti chiedi come faccia un ciclista a pedalarci sopra una, due, tre volte. Eppure il bello è proprio questo.

Qui però non esiste il silenzio prima della tempesta, ma è il casino che addirittura sovrasta la tempesta. È una cosa a metà fra un rave party e un poema epico, non saprei definirlo diversamente.

Per sentire lo scricchiolio metallico delle bici sul pavé lo devi cercare tra la musica a palla e le urla che a ogni passaggio dei corridori fanno tremare persino il suolo. Per andare a raccogliere la storia che il Vecchio Kwaremont ha da raccontarti devi provare a sentire ogni cosa intensamente e insieme a isolarti da tutto il resto, quasi scavare a mani nude per tirarla fuori dal fango scuro e pastoso dei prati lì accanto dove i fiamminghi non hanno paura di affondare fino alle ginocchia e, anzi, ci ballano dentro.

Perché la Ronde è una religione, un rito collettivo in cui il legame con la propria terra e la connessione con il ciclismo diventano un tutt’uno. È qualcosa di indissolubile, intimo e potente che altrove non esiste. Solo in questo tempio all’aperto. Respirarlo, sentirlo sulla pelle, osservarlo, ascoltarlo – in una parola: viverlo, con ogni senso all’erta – è davvero un viaggio che porta altrove.

Tadej Pogacar questa corsa la vuole come non mai. Allunga la prima volta davanti a noi, al terzo passaggio va a prendere Pedersen poco oltre e poi vince come sa fare lui – con quella semplicità e serenità che fanno sembrare tutto un gioco – mentre le casse qui sparano ad alto volume “Gimme! Gimme! Gimme!” degli Abba e noi balliamo sul posto per scaldarci un po’, con gli occhi incollati agli schermi dei telefoni.

“Dammi, dammi, dammi” una vittoria, un traguardo da tagliare anche da ultimo, un’emozione o un gesto che resti, alla fine di tutto e oltre il buio che prova a ingoiarci ogni notte.

Qualcosa come l’abbraccio fra Pogacar e Van Der Poel e un divertito “Pensa ai grandi giri, per favore”. Come il sole che esce all’improvviso mentre torniamo a Bruges e ci fa capire a cosa si ispiravano i pittori fiamminghi per i loro paesaggi. Come i belgi ubriachi marci che barcollano e scivolano, eppure si armano di sacchi e raccolgono tutte le lattine gettate nel fango.

Take me through the darkness to the break of the day.

Abba

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