Un posto felice | Oropa – Bergamo, Giro d’Italia 2017

Ho fatto una fatica enorme a mettere per iscritto due giorni di Giro: quarantott’ore zeppe di chilometri tra Oropa e Bergamo e di emozioni difficili da districare, perché sono davvero tante. Quello che so con certezza è che il suo clima mi manca già. Ciò che si respira sulle strade che ospitano la Corsa Rosa è un miscuglio di ansia, speranza, felicità e malinconia difficile da incontrare altrove.

E io, qui in mezzo, mi sento bene.

Oropa mi sorprende come non avrei mai pensato, con il Santuario che osserva tutto dall’alto e mi rassicura con la sua mole imponente. Arrivare lassù sembra davvero una Via Crucis, dove ognuno decide quali siano le sue stazioni. Non so se sia un paragone azzardato, ma credo ogni giorno di più che il ciclismo abbia in sé qualcosa di spirituale, soprattutto quando si tratta di salita.

Sono in tanti a provarla sulle proprie gambe, a tentare di capire come e quanto sia il dolore provato da chi ci deve soffrire fino in fondo. Su quelle curve che si snodano in mezzo al bosco, salgono sicuramente con il cuore colmo di pensieri per Marco che, proprio lì, ha regalato a tutti una delle sue imprese più belle. Il suo nome si legge ovunque, sull’asfalto e sui cartelli, insieme a quello di Michele. Perché a 1200 metri il cielo ci sembra già più vicino – anche se non siamo ancora sulle Alpi – e ad allungare un dito crediamo forse di essere più prossimi a questa strana coppia formata da un Pirata e un’Aquila.

Chissà se ci pensa anche Tom, quando scatta sull’ultima curva e va a prendersi la tappa lasciandosi dietro tutti gli altri. Dicono ci abbia impiegato solo dieci secondi in più di Pantani a percorrere quegli undici chilometri. Lui, semplicemente, dice I’m happy e alla fine della giornata è questo che conta.

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L’indomani si riparte, a caccia di un angolo buono, sempre in salita, ma questa volta nelle valli bergamasche. Ci fermiamo sopra Zogno, da qua sopra si vede tutta la vallata sottostante, compresa la strada: è il posto perfetto. I fiocchi rosa che qualcuno ha sistemato sul bordo della carreggiata danzano nel venticello leggero. Dalla baita degli alpini, qualche curva più sotto, salgono prepotenti le note di brani rock e balli di gruppo, per ingannare l’attesa facendo festa. Se ci fosse silenzio, escluso il fruscio delle ruote di chi – anche qui – tenta di scoprire la salita del giorno, sarebbe ancora più perfetto.

Fisso lo sguardo verso le case giù in fondo, da dove spunta la curva, col sole che mi brucia la pelle da quanto è caldo – il tempo si sospende. Ricomincia a scorrere quando, finalmente, appaiono i corridori. Salto veloce dall’altro lato della strada, in mezzo all’erba – quella sì, fresca. Passa il gruppetto di testa, qualche inseguitore e poi, circondata dai suoi scudieri, la Maglia Rosa. – Ci rivediamo, happy Tom. – Poco dietro, sempre in gruppo, gli altri, con Vincenzo e Nairo che controllano con attenzione – che non si sa mai. Pian piano salgono gli altri, più staccati. Arriva Paolo, da solo, corre con una costola rotta, ma non manca mai di arrivare al traguardo: onora il Giro, ma soprattutto – da buon luogotenente quale è – onora colui che doveva essere il suo capitano, Michele. Lo incito, mi sorride. Anche qualcun altro lo fa ed è bellissimo così:

accorgersi che nonostante la fatica si può sempre regalare qualcosa a chi sta intorno.

Quando scendo a Bergamo, la corsa è finita da qualche minuto, ha vinto Bob: giovane, bravo e bello, in uno sprint tra i migliori ha regolato tutti con la sua smagliante Maglia Bianca.

Io vado ai bus, non so nemmeno chi aspettare, mi accontento di girare qua e là e osservare i ragazzi che tornano, pronti a godersi l’ultimo giorno di riposo prima delle grandi montagne. Qualcuno sembra quasi fresco, qualcun altro invece soffre la fatica, altri ancora si ricaricano abbracciando i familiari. Il profumo del bagnoschiuma si fa strada nell’aria più tenue del tardo pomeriggio e mi scatena improvvisa la malinconia, riportandomi di colpo ad una Sanremo di pochi mesi fa.

Giuro che sarei pronta per ricominciare da capo e continuare, se me lo proponessero. Qui mi trovo nel mio elemento, è la mia oasi di tranquillità. Tornare a casa fa quasi un po’ male perché finisce che ci lascio sempre un pezzetto di cuore, tra queste biciclette.

Ma io, qui in mezzo, sto bene.

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