Lassù | Giro d’Italia 2022 – St. 20 Belluno-Marmolada

I paesini, qua sulle Dolomiti, hanno un’aura che per me è introvabile da qualsiasi altra parte. Gli chalet con le sembianze di altri tempi, i giardini e gli orti ben curati anche se piccoli, le forme irregolari delle montagne che sembrano sculture appena appena abbozzate: basta posare lo sguardo da qualsiasi parte, da sotto in su, e ci si sente subito sollevare qualcosa dentro per la bellezza.

La luce del sole cambia di continuo inclinazione, a seconda delle nuvole che corrono veloci e continuano a inghiottire e a sputare fuori le vette, in un gioco ipnotico che starei ferma a guardare per ore, come con le statue di Canova nella gipsoteca di Possagno o qualsiasi opera d’arte che mi trovo di fronte.

Da Falcade Alto si vede tutta la vallata sottostante, con il monte Civetta da un lato e le pale di San Martino dall’altro a fare da sentinelle. Aspettiamo per ore a bordo strada facendo la danza del sole contro tutte le previsioni meteo che promettono inesorabilmente il diluvio, mentre gli amatori salgono verso i passi con quel mood a metà fra il desiderio di emulazione dei pro e la voglia di mettere alla prova se stessi e i propri limiti.

La lunga attesa fa parte di questo pianeta strano che è il ciclismo. È fatta per guardarsi in giro, scoprire luoghi nuovi, chiacchierare con la gente che vive lì o con chi già conosci, condividere cibo o schermi per controllare quanto manca al passaggio. È fare famiglia con chiunque, anche solo per qualche ora.

Un tizio sale in bici lungo i tornanti reggendo una bandiera australiana che veleggia tra gli alberi, nel vento fresco dei 1200 metri di quota, e si ferma a bordo strada, poco distante da noi: pare una sorta di presagio solitario che preannuncia la tempesta.

Il volto di Richard Carapaz è tirato e stanco. Una maschera dalle fattezze antiche, con gli occhi scuri e profondi del Sud America che non si sa davvero dove guardino e cosa vedano. Forse un luogo oltre tutto quanto, al di là di quel tempo che può diventare maledetto da un momento all’altro e lui, come tutti gli altri, lo sa.

Il gruppo mi sfila davanti quasi compatto, solo il gruppetto dei velocisti è già staccato con la placida rassegnazione che li accompagna in tappe come questa, dove la sola (seppur fondamentale) preoccupazione è quella di non sforare il tempo massimo proprio alla fine del Giro.

Prima di scendere verso Verona guardo in alto un’ultima volta e sento una fitta al cuore al pensiero di dover salutare queste montagne. Intanto, quella che prima era solo una vaga sensazione diventa una consapevolezza che inizia a farsi sempre più strada nella mia testa: oggi cambia la Maglia Rosa. E mentre un gregge di pecore ci blocca lungo la strada, a chilometri di distanza Jai Hindley vola via leggero tanto quanto Carapaz pedala pesante mentre sembra finire inghiottito dalla folla pazza d’amore sulla strada che sale ripida verso il Fedaia.

Più avanti, davanti a tutti, c’è Alessandro Covi. Da solo, alza le braccia al cielo in questo giorno di gloria che, cercato e ricercato con non poca ostinazione, ha deciso di rivelarsi come un raggio di luce fra le nubi che sovrastano la Marmolada, lassù in alto.

Lassù, che è lo spazio dei sogni coltivati a lungo, nel silenzio e nella speranza della crescita, e finalmente realizzati, ma anche di quelli che si infrangono rumorosamente al suolo come gli alberi abbattuti da Vaia, di cui le valli recano ancora le cicatrici. Lassù, che è l’altro suolo sacro, oltre al pavé, su cui il ciclismo sa scrivere le sue storie migliori, dolorose per qualcuno, liete per altri.

Lassù, che è quel punto indefinito verso il quale, alla fine di tutto, sollevi lo sguardo per mormorare un “grazie”, masticare un amaro “perché?” o rivolgere un pensiero a qualcuno che immagini ti stia osservando da lì. E in montagna, lassù, è un po’ più vicino.

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