La prima cosa che sento sono i suoni, oramai famigliari anche da lontano. Poi arriva il vento in faccia, schiaffo e carezza insieme, che mi fa chiudere gli occhi come per percepirlo meglio, rendendo più acuti tutti gli altri sensi.
Mi sembra di essere come i fiori di topinambur a bordo strada, in questo autunno che ancora non ha preso una piega ben definita, fieri e ritti con la loro corolla gialla e un tesoro ben celato al di sotto del suolo: mi lascio portare dall’aria spostata dalle bici e nello stesso tempo mi sento fortemente ancorata a questa terra, a queste radici.
Risalgo a piedi verso il centro di Varese e mi fermo nella piazza su cui si affacciano la Provincia e la Questura. Poco più avanti c’è un bar pasticceria – così recita l’insegna rossa e blu – che sembra uscito direttamente dagli anni Sessanta, tanto che i poster dei gelati 2022 appesi fuori quasi stonano. All’esterno, tra due tavolini, è accomodato un uomo con un carlino in braccio che osserva il passaggio delle cicliste come se fosse sul divano di casa.

Ecco, quando incrocio esistenze che sembrano capitare per caso in momenti come questi, a metà tra il menefreghismo e la curiosità più o meno sottile per quello che sta accadendo davanti ai loro occhi, ripenso a come ero io anni fa. A come guardavo questo sport, quando mi passava sotto casa, non capendone assolutamente nulla eppure aspettando quell’unico istante come una rivelazione che stentava ad arrivarmi e dunque mettendolo da parte fino alla volta successiva.
Fino a quando, a un certo punto, questo ciclismo ha cominciato a diventare casa, rifugio e fonte di ispirazione, a farmici specchiare corsa dopo corsa spalancandomi prospettive diverse sulla vita, sulle storie, sui luoghi, sulle persone.
E adesso mi ritrovo a osservare uomini con i carlini, anziani umarell a bordo strada con le braccia incrociate dietro la schiena, ragazzini che sfrecciano sui marciapiedi in bmx, commercianti affacciati sulle soglie dei propri negozi o signore che guardano giù dalle finestre di casa domandandomi cosa vedano e se quello che vedono riesce a raccontare loro qualcosa, come succede a me.
Cambio punto di vista a ogni giro e percepisco distintamente questo tornare alla Tre Valli a tre anni di distanza dall’ultima volta, senza sapere fino all’ultimo momento se ce l’avrei fatta, come una sensazione benevola che mi avvolge come un abbraccio. Di quelli stretti e intensi che si danno agli amici quando li rivedi dopo tanto tempo, o prima di salutarli, fatti per dirsi tutto in un attimo, senza bisogno di parole.

Il cielo si riapre verso la fine della gara e il sole taglia in due il centro città con quelle ombre scure e nette che mi piacciono tanto. Vincenzo Nibali prova a mordere la corsa come ha sempre saputo fare lui e tutta via Sacco esplode in un boato già impregnato di malinconia. Alejandro Valverde arriva terzo allo sprint e quasi quasi la gente ha occhi e applausi più per lui che per Tadej Pogacar.
Perché alla fine si vorrebbe sempre provare a trattenere chi sta per andarsene e iniziare un nuovo capitolo da un’altra parte, se non con le mani, perlomeno attraverso i ricordi. Da richiamare alla mente, da creare da zero anche all’ultimo istante, da fissare in un’immagine ben precisa.
Scendo dalle scale della Camera di Commercio poco dietro Valverde, che si ferma ad autografare qualcosa a un bambino che lo guarda da sotto in su con espressione adorante. Alejandro, prima di uscire dalla porta, lo accarezza dolcemente sulla testa.
Tempo zero e gli occhi mi pungono di lacrime senza che possa fare qualcosa per frenarle.