Un omaggio all’Italia del Giro (e non solo) – Intervista a Giacomo Pellizzari

Giro d’Italia numero 100: ormai ci siamo quasi. Le iniziative per celebrare a dovere questo importante traguardo si moltiplicano ogni giorno di più, con raccolte di tutti i tipi (fino all’album di figurine della Panini, al quale io non sono stata in grado di resistere nemmeno mezzo secondo) e soprattutto tanti, tantissimi libri dedicati alla Corsa Rosa.

Anche alla prima edizione di Tempo di Libri, la fiera dell’editoria tenutasi a Milano dal 19 al 23 aprile scorsi, sono stati presentati alcuni di questi volumi, in particolare “Il Centogiro, in uscita tra qualche giorno e scritto dagli autori di Bidon insieme a nomi d’eccezione come Silvio Martinello o Marco Pastonesi, e “Storia e geografia del Giro d’Italia”, di Giacomo Pellizzari.

Quest’ultimo, edito da Utet e fresco di pubblicazione, ha già trovato il suo bel posticino nella mia libreria e a breve verrà senz’altro divorato rapidamente – mi prometto sempre di centellinare certi libri particolari, ma è un proposito che difficilmente riesco a mantenere.

Di Giacomo ho già amato “Il carattere del ciclista”, finito dritto dritto nella mia top 10 dell’anno scorso, ma sono sicura che anche questo suo nuovo libro troverà spazio in quella del 2017. Nel frattempo, in attesa di immergermi tra le sue pagine, inizio a conoscerlo insieme a voi grazie ad un’intervista alla quale il nostro autore si è gentilmente prestato.

Vi anticipo solamente una frase che troverete e che per me dice tutto. Sul ciclismo, ma, oserei dire, sulla vita intera.

Ci si domanda a volte se abbia senso. La risposta è tutta nel sorriso di Michele. Sì, ha dannatamente senso.

Perché ora ci è impossibile non pensare a Scarpa che, andandosene all’improvviso quel maledetto sabato mattina, ci ha gelato il sorriso. Ma è proprio dal suo sorriso che dobbiamo ripartire.


  • “Storia e geografia del Giro d’Italia” è un titolo che richiama quello di un manuale scolastico, ma di certo non si tratta di una mera enciclopedia sulla Corsa Rosa. Una confezione ‘seria’ per un contenuto sicuramente scoppiettante, composto in meno di sei mesi: un gioco voluto? Cos’ha significato per te scrivere un libro del genere in così poco tempo?

Esattamente, il titolo è anzi molto ironico. Vedendo la copertina del libro e la frase sulla fascetta, si coglie immediatamente il tono “pop” e leggero del libro. “Storia e geografia di…” è un’espressione che siamo abituati ad usare per qualcosa di importante, soprattutto a scuola. Accostata a un corsa ciclistica, io credo generi un cortocircuito inaspettato e interessante. Allo stesso tempo però, questo è effettivamente anche un libro di “storia e geografia”: nel senso che racconta di storie e soprattutto di posti.

Per me, in particolare, ha significato intraprendere un viaggio nel Paese in cui ho la fortuna di vivere, l’Italia, ma della cui bellezza forse non mi ero mai accorto davvero fino in fondo, quasi la dessi per scontata. L’Italia è un Paese così piccolo, eppure talmente ricco di bellezze e paesaggi diversi da stordire, che ci viene da lontano. L’Italia è il paese in cui Goethe venne a formarsi da giovane rampollo (il viaggio di formazione nel Bel Paese era piuttosto diffuso tra le famiglie “bene” nell’Ottocento) e che lo cambiò per sempre. Così anche per me, tenendo ovviamente le debite proporzioni, questo libro ha rappresentato un “tour” di formazione (in quasi tutti i posti raccontati, 21 in tutto, tra l’altro ci ho anche pedalato in prima persona): il “mio” viaggio in Italia, grazie al ciclismo e alla Corsa Rosa.

  • Tu affermi che i veri protagonisti del Giro d’Italia non sono i corridori, ma i luoghi che li vedono protagonisti. C’è un luogo in particolare che ti ha regalato l’ispirazione per scrivere il tuo nuovo libro? 

I luoghi sono la scenografia, esattamente come quella di un film. E possono determinare, anche da soli, la riuscita o meno di una storia. E questo vale soprattutto per una corsa come il Giro d’Italia. Ci sono posti, magari anonimi, si pensi al Mortirolo – poco più che una mulattiera tra la Valtellina e la Val Camonica – che si sono invece trasformati in autentici teatri di imprese epiche (vedi appunto Pantani nel ’94).

C’è sì un luogo, tra i 21 narrati nel libro, che mi è particolarmente caro (dove pedalo infatti spessissimo) ed è Prati Mezzanego (il secondo capitolo). Purtroppo lo è diventato per ragioni drammatiche (e in questi giorni ahimè tornate di notevole attualità): nei pressi di quella località, nell’entroterra del levante ligure, cadde e perse la vita durante una tappa del Giro d’Italia del 2011, un ciclista belga di nemmeno 27 anni. Si chiamava Wouter Weylandt. C’era il sole, il mare si avvicinava dopo chilometri di polvere, era una discesa molto facile (quella che scende la passo del Bocco, un valico che mette in comunicazione l’Emilia con la Liguria), Wouter si voltò spensierato per vedere se qualcuno lo seguiva, mancavano 25 chilometri all’arrivo. Un attimo fatale, quando girò nuovamente la testa verso la strada, era troppo tardi. Una frazione di secondo e nulla di più. Perse il controllo della bicicletta a 80 all’ora e centrò in pieno un muretto, cadde e sbatté violentemente il capo. Morì praticamente sul colpo. Prati di Mezzanego e il passo del Bocco sono posti meravigliosi, naturalisticamente parlando, dove amo andare a cercare silenzio e contemplazione quando esco in bici. Eppure sono anche strettamente legati a un evento drammatico. Ma è “grazie” a quell’evento se li ho scoperti. Andai in pellegrinaggio verso quel luogo per cercare Wouter, perdendomi tra stradine secondarie immerse nella macchia mediterranea, e alla fine, dopo aver chiesto indicazioni a osterie e bar, lo trovai. Fu un po’ come la scoperta che fanno i ragazzini nel film “Stand by me” del cadavere di un loro coetaneo investito da un treno. Una storia triste che però diventa anche l’occasione per scoprire un luogo. Da allora ci torno continuamente, e mi fermo alla lapide apposta nel punto in cui il giovane belga perse la vita. Penso che la stessa cosa avverrà da oggi, con il piccolo comune di Filottrano dove è morto tragicamente Michele Scarponi. Prima a nessuno sarebbe venuto in mente di andarci.

  • In uno dei post del tuo blog (http://ciclistapericoloso.com/2017/04/12/con-la-straordinaria-partecipazione-di/), in cui anticipi qualcosa del tuo libro, compare una lista di nomi lunga ed eterogenea che comprende, oltre a leggende del ciclismo del calibro di Marco Pantani, anche personaggi come Scipione l’Africano o Dante Alighieri. Leggendo tutti questi nomi, uno di primo acchito si potrebbe chiedere cos’abbiano a che fare con il Giro d’Italia…

In realtà, niente 😉. Scherzo: invece tutto. Il ciclismo, e il Giro d’Italia in particolare, diventano l’occasione imperdibile per raccontare “altre storie”. Quelle di cui il nostro paese è pieno, come un panettone di canditi. Non c’è località, toccata in 100 anni di storia del Giro, che non nasconda tra le rocce, nei boschi o nell’acqua dei laghi, piccoli segreti. Sta a noi saperli trovare. Per cui sì, in questo libro, quei personaggi ci sono tutti. Da Fausto Coppi a Jacqueline Kennedy, passando per Scipione l’Africano. Per scoprire come, dovete leggerlo.

Ve ne racconto uno: lungo la Costiera Amalfitana c’è un valico che si chiama “Chiunzi”, deriva dal latino “punctio”, puntura. Nel mio libro è il valico “che punge”. Negli anni Sessanta punse niente po’ po’ di meno che Jackie Kennedy. La First Lady americana era in vacanza a Ravello, sulla “Divina Costiera”, conobbe lì Gianni Agnelli, giovane, elegante, affascinante. Lui la portò in barca a fare sci nautico tra le piccole insenature di quel luogo incantato, e lei finì per innamorarsi perdutamente, dimenticando per un attimo, i tradimenti del marito e le preoccupazioni di una vita più grande di lei. Ma trent’anni dopo lo stesso valico torna a “pungere”. Stavolta si tratta di un ciclista al Giro d’Italia, Marco Pantani. Durante la tappa Mondragone-Cava de’ Tirreni, in discesa dal Valico di Chiunzi, un gatto gli taglia la strada. Un’altra, tremenda, puntura dello stesso luogo. Bellissimo, ma tremendo assieme.

  • Cento edizioni del Giro d’Italia: probabilmente quasi tutti abbiamo almeno un ricordo legato alla Corsa Rosa. Qual è o quali sono i tuoi ricordi principali del Giro? Li ritroviamo nel libro? 

I miei ricordi del Giro sono tanti. Quasi tutti legati alla televisione, strumento fondamentale che ha portato la Corsa Rosa nelle nostre case, facendocela “vedere”. Senza le immagini della TV, molti luoghi del Giro (e dell’Italia) non li avremmo mai scoperti. Sfatiamo quindi un mito: la televisione ogni tanto fa bene. Nel caso del Giro d’Italia, le dirette sono da sempre un enorme lungo documentario sull’Italia. Le farei vedere nelle scuole agli studenti, per fargli conoscere posti che spesso passano in secondo piano. Tornando ai miei ricordi, ho 44 anni, il ciclismo e il Giro li seguo da quando ne avevo sette. Ho visto Moser, Saronni, Bugno, Pantani, Contador, Nibali. Ci sono tutti in “Storia e geografia del Giro d’Italia”, con le loro imprese e anche con i loro “tonfi”. Ma non dimentichiamoci però una cosa. Questo è prima di tutto un libro di luoghi, i ciclisti vengono dopo, quasi di conseguenza.

  • Non può mancare un pensiero per Michele Scarponi, con la sua improvvisa scomparsa che è stata un pugno nello stomaco per tutti noi… Se dovessi scrivere un “Il carattere del ciclista volume 2” e dedicargli un capitolo, cosa diresti di lui?

Michele era speciale, lo abbiamo capito tutti in questi giorni, vedendo le sue interviste, i filmati dei suoi allenamenti seguito dal pappagallo Frankje, il suo modo unico di scherzare con i compagni. È una tragedia anche e soprattutto per questo. Difficilmente colmabile. È come se avessero tolto un sorriso al ciclismo. Non esistono un aggettivo e un carattere adatti a descrivere Michele. Qualunque scegliessi, sarebbe riduttivo. E soprattutto, quando una persona muore, diventa difficile non cadere nella retorica quando lo si racconta. Dico solo che, da cicloamatore quale sono, è un evento che mi ha toccato molto, molto da vicino. Forse più di quanto credessi. Mi capita di pensarci di continuo, anche mentre lavoro. Il rischio che si corre, soprattutto sulle indisciplinate strade italiane, in bicicletta, è enorme. Che si sia professionisti o amatori. Ci si domanda a volte se abbia senso. La risposta è tutta nel sorriso di Michele. Sì, ha dannatamente senso. Pedaliamo, pedaliamo che fa bene, che ci porta via dai mali della vita.

Se siete curiosi, fate un giro anche sul blog di Giacomo → https://ciclistapericoloso.com/

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